“The people versus Shell”: un precedente storico o un’opportunità mancata?

Storica sentenza di un tribunale olandese che ha obbligato Shell, colosso petrolifero internazionale, a ridurre le emissioni del 45% entro il 2030, vincolando così la compagnia al rispetto del cosiddetto “Accordo di Parigi” del 2015, intesa raggiunta tra gli Stati membri della Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (UNFCCC), riguardo alla riduzione di emissione di gas serra, e alla finanza, a partire dall’anno 2020. Il caso era stato sollevato nel 2019 dalla filiale olandese di Friends of the Earth (“Milieudefensie”), e sostenuto quale class action da altri sei gruppi e più di 17.000 cittadini olandesi. La sentenza segna una milestone per le numerose vertenze in corso in tutto il mondo nei confronti dei colossi petroliferi.

Nella pronuncia, accolta con giubilo dalle associazioni ambientaliste come un precedente storico (o per citare le parole del comunicato stampa “un nuovo inizio”), si legge che la compagnia “deve ridurre la sua produzione di CO2 e quella dei suoi fornitori e acquirenti entro la fine del 2030 di un netto del 45% rispetto ai livelli del 2019″, ha affermato la corte e che Royal Dutch Shell deve “attuare immediatamente questa decisione”.

Questa sentenza colpisce pesantemente Shell che, solo lo scorso febbraio, aveva fissato nuovi obiettivi per ridurre la propria impronta di carbonio netta del 20% entro il 2030, del 45% entro il 2035 e del 100% entro il 2050, rientrando in quest’ottica nel programma di transizione ecologica e “zero emissions” imposto negli Stati membri dalla Comunicazione della Commissione europea (2018) – 773 del 28 novembre 2018 , intitolata “Un pianeta pulito per tutti – Visione strategica europea a lungo termine per un’economia prospera, moderna, competitiva e climaticamente neutra”. La compagnia aveva affermato di essere impegnata in seri sforzi per ridurre le emissioni di gas, ma che non esiste una base giuridica per il caso e che sono i governi i responsabili del raggiungimento degli obiettivi di Parigi. Quindi di non ritenersi vincolata giuridicamente da obblighi per il perseguimento di questi obiettivi, tesi ribaltata dalla sentenza in esame.

Pur riconoscendo che Shell “non può risolvere da sola il problema globale dell’inquinamento da CO2”, il giudice ha affermato che questo non assolve l’azienda dalla sua responsabilità individuale di limitare le emissioni “che può controllare e influenzare”. Il giudice ha aggiunto che Shell “ha la totale libertà di adempiere al proprio obbligo di riduzione come meglio crede”. A Shell non viene specificato, quindi, come e secondo quali piani e strategie perseguire e raggiungere tale obiettivo, da oggi, però, obbligatorio. La decisione, inoltre, spaventa le compagnie petrolifere accusate di effettuare abitualmente operazioni di “greenwashing”, vale a dire la promozione di imponenti campagne mediatiche in cui affermano di perseguire strategie pro ambiente, mentre in realtà hanno obiettivi molto meno ambiziosi di quanto sbandierato.

Negli ultimi anni, il climate change è diventato il più grande problema generazionale: moltissimi ragazzi e giovani adulti di tutto il mondo sono stati coinvolti dal movimento ambientalista “Fridays for Future” in manifestazioni e iniziative per il contrasto al riscaldamento globale. Attualmente il caso di cui si parla di più è quello di sei giovani portoghesi – con età comprese tra i 9 e i 22 anni – che, con il sostegno dell’organizzazione non profit “Global Legal Action Network”, si sono rivolti alla Corte Europea per i diritti dell’uomo accusando 33 stati di aver violato i diritti umani per non aver preso sufficienti misure per mantenere l’aumento delle temperature medie globali sotto 1,5 °C, la richiesta preferenziale dell’accordo sul clima di Parigi. Secondo l’accusa nella causa dei giovani portoghesi, gli Stati sarebbero andati contro tre articoli della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, e nello specifico: l’articolo 2, quello che stabilisce il diritto alla vita, perché gli effetti del cambiamento climatico in Portogallo, come i grandi incendi boschivi del 2017, minacciano proprio tale diritto; l’articolo 8, quello che stabilisce il diritto alla vita privata e familiare, perché i periodi di caldo intenso limitano il benessere fisico e mentale, costringendo a passare più tempo al chiuso. E infine l’articolo 14, quello che vieta le discriminazioni: le conseguenze peggiori del cambiamento climatico, secondo l’accusa, si ripercuoteranno principalmente sulle generazioni più giovani.

Al di là dei meri e spesso vani proclami, i dati più recenti sul livello di emissioni di diossido di carbonio in atmosfera (in termini assoluti e pro capite) sono del tutto insoddisfacenti per cercare di contenere l’aumento delle temperature; la COP25 di dicembre 2019 a Madrid aveva lasciato in eredità risultati deludenti, con più ombre che luci, e una dichiarazione di emergenza climatica, mentre rimaneva la magra consolazione che l’Unione Europea si fosse impegnata molto di più di altri Paesi. I dati più recenti disponibili, aggiornati al 2019 (quindi in uno scenario pre pandemico) e relativi alle emissioni di diossido di carbonio dai combustibili fossili e dalla produzione di cemento continuano ad essere allarmanti. In breve, non si può dire con certezza che al 2019 sia stato raggiunto il picco di emissioni, dopo il quale si sarebbero dovute stabilizzare e poi ridurre le concentrazioni di CO2 nell’atmosfera, il che implica scelte immediate e drastiche per ridurre le emissioni e raggiungere l’obiettivo di emissioni nette pari a zero.

A livello di Stati, Cina (10,17 miliardi di tonnellate – pari al 27,93% del totale mondiale di emissioni di CO2), Stati Uniti (5,28 miliardi, pari al 14,51% del totale mondiale), India (2,62 miliardi, pari al 7,18% del totale mondiale) e Russia (1,68 miliardi, pari al 4,61% del totale mondiale) rappresentano il grosso delle emissioni nel 2019: i primi due emettitori addirittura il 42,44%  delle emissioni mondiali, i primi tre il 49,62%, i primi quattro il 54,24%.

A livello invece di emissioni pro capite, tenendo cioè conto delle numerosità della popolazione nei diversi Paesi, il quadro cambia ed è un elemento molto importante da tenere in considerazione, perché, per esempio, Cina e India sono tra i primi tre emettitori, ma sono anche i due Paesi più popolosi del mondo. I maggiori emettitori di CO2 pro capite del mondo, cioè con la più alta impronta di carbonio media degli abitanti, sono i principali Paesi produttori di petrolio che hanno una popolazione poco numerosa, a cominciare da quelli in Medio Oriente, ma non solo: nel 2019 il Qatar ha avuto le più alte emissioni con 38,61 tonnellate per persona, seguito da Kuwait (25,56 t.) e piccole isole con abbondanza di gas e petrolio come Trinidad e Tobago (27,14 t.) e Nuova Caledonia (29,86 t.).

I dati indicano, dunque, la presenza di una correlazione positiva tra livello del reddito ed emissioni di CO2 pro capite; ovvero, un alto tenore di vita si accompagna mediamente a una più elevata impronta di carbonio. Per questa ragione diventa particolarmente interessante il confronto tra Paesi che hanno un livello di reddito e standard di vita simili, ma differenze significative in termini di impronta di carbonio: diversi Stati dell’UE – come Portogallo e Francia (che produce elettricità da fonti nucleari e rinnovabili anziché da fonti fossili) – hanno emissioni pro capite molto più basse, a dimostrazione dell’importanza dei sentieri di sostenibilità ambientale e a minor impatto di emissioni di CO2 già in atto.

A complicare il quadro, tuttavia, bisognerebbe anche aggiungere che, raffrontando il dato 2019 con quello del 2018, la Cina ha registrato un incremento delle emissioni del 2,19% (Paesi con un notevole incremento sono il Vietnam con il 16,97% la Serbia con il 18,7%, la Bosnia-Erzegovina con il 20,53%), l’India un incremento dello 0,97%, mentre gli Stati Uniti hanno registrato un calo del 2,58%, l’Australia dell’1,19 e il Canada dell’1,68. Nell’UE, l’Italia ha registrato un calo del 3,15%, la Spagna del 6,29 e la Germania del 7,07.

Tale analisi, rapportata al caso di specie della sentenza che colpisce Shell, dovrebbe portare ad una riflessione: numeri alla mano, l’Europa è il continente che più di tutti si è adoperata ed impegnata in serie campagne di abbattimento delle emissioni della CO2, al contrario di altri competitors internazionali primi tra tutti i Paesi cosiddetti “BRICS”, acronimo, utilizzato in economia internazionale, che individua cinque Paesi: Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica.

La sentenza nei confronti di Shell, seppur importante e significativa, deve comunque tener conto delle politiche statali e comunitarie riguardanti gli impegni assunti dall’Unione Europea.

Se, infatti, è auspicabile un ripensamento del paradigma industriale a livello mondiale, volto a rallentare l’attuale sfrenata corsa, il rilancio green di un’economia non può ridursi solamente a proclami e dichiarazioni di intenti, ma deve strutturarsi con una visione a lungo termine attraverso un preciso schema economico-finanziario, che strutturi tale cambio di paradigma dalla piccola azienda alla multinazionale, coinvolgendo in tali decisioni il singolo cittadino, che arrivi a percepire il climate change come un problema di tutti. Altiero Spinelli, che nel confino di Ventotene aveva immaginato l’Europa, aveva scritto che “Gli statisti si riconoscono per la lungimiranza delle scelte, vedendo ciò che altri non vogliono capire”. Ai nostri politici chiediamo il coraggio di queste scelte, con la convinzione, d’altro canto, che varare un programma volto alla decarbonizzazione senza considerare l’effetto domino che si creerebbe, appare un rischio non auspicabile per il mondo. La transizione energetica non può e non deve diventare un tavolo di scontro generazionale, in un dualismo, spesso semplicistico, tra ciò che viene percepito come “bene” e ciò che, al contrario, oggi è “male”. Le aziende devono essere coordinate in uno schema più ampio di strategie nazionali e internazionali, che le impegni nell’ottica di un generale interesse collettivo. Imporre semplicemente, obbligare i singoli, aziende comprese, senza far percepire le potenzialità intrinseche della transizione, appare una scelta poco lungimirante, frutto più del momento e di una battaglia di ideali.

 

Avv. Prof. Enrico Napoletano

Founder

Studio Legale Napoletano & Partners

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