Ci vuole coraggio. Il futuro è la storia del nostro presente!

Siamo paralizzati; in sospensione, tra un passato che è andato e un futuro che attende.
Siamo così maledettamente ancorati a quella che era la nostra vita quotidiana che non ci rendiamo conto del tempo che abbiamo a disposizione per iniziare a re-immaginarla: a come avrebbe dovuto essere e a cosa potremmo fare. Invece, passiamo le nostre giornate a domandarci se i numeri del “bollettino di guerra” che la Protezione civile ci racconta siano veri o no. Pronti a mettere in dubbio qualunque cosa pur di trovare il responsabile di questa situazione; perché siamo spaventati, abbiamo paura di perdere il nostro lavoro, il nostro sostentamento economico, la nostra vita. Quel poco che ci rendeva fiduciosi per il futuro. Purtroppo, però, tutto è cambiato. Dobbiamo rendercene conto e in fretta. La vita come la conoscevamo tornerà, sì, ma se non impariamo, oggi, qualcosa da questa situazione di emergenza, quella non sarà più la vita che conoscevamo: e la colpa sarà soltanto nostra per aver perso tempo ad attenderla; senza provare ad accogliere la necessità di un cambiamento.

Ci vuole coraggio. Il coraggio di cambiare; di credere alle idee fantasiose di un giovane che vede il futuro con gli occhi del presente: ci vuole coraggio ad entrare in connessione con un mondo diverso, per rimettersi in gioco e osare. Certo, l’innovazione consumerà molte di quelle professioni legate a regole figlie di un’epoca che fu, ma creerà anche nuove opportunità; nuovi modelli di vita, di relazioni e di sviluppo professionale. Le soluzioni non sono scritte nei manuali.

Il lavoro del futuro si conquista pensando diversamente.
Ma tutto questo ha bisogno di connettersi alle radici del valore: il lavoro del futuro deve porre al centro la responsabilizzazione della persona: è strategico ma sociale, è creativo ma consapevole, è connesso ma dipendente. Lo specchio di questo presente di trasformazione lo troviamo descritto nei vari post che circolano da qualche settimana nei vari social network. Dalle Aziende più strutturate (Eni, Enel, Snam, Salini Impregilo ecc.) agli Studio professionali (Avvocati, Commercialisti, Notai ecc.) abbiamo incontrato persone comuni organizzarsi in casa con un computer e lavorare vicino ai propri figli, con professionalità, consapevolezza e dedizione; e anche con un sorriso in più. Il lavoro da casa; e pensare che quando quattro anni fa si cominciò a parlare di smart-working questo veniva visto come il lavoro per i fannulloni. Oggi, invece, se non fosse per questa modalità di lavoro, probabilmente il Paese si sarebbe ritrovato con più vittime e in “stato di liquidazione”.

Ben vengano, allora, forme di lavoro innovative: non alternative! Largo alle idee. Largo al ripensamento del modo di lavorare. Ripartiamo da questa base. A cominciare dalla classe più colpita dall’emergenza, in questo momento: l’Amministrazione della Giustizia; che sconta, da un lato, l’incapacità cronica di una classe politica inadeguata a guidare il cambiamento tecnologico e, dall’altra, la paura di una classe forense troppo legata a principi tanto sacri, quanto vetusti, che impediscono – o rallentano – l’innovazione tecnologica nello svolgimento del processo.

Certo, un timido cambiamento lo si è constatato nel settore civile, con l’introduzione del c.d. processo telematico; ma nel settore penale siamo ancora in una situazione in cui i giovani praticanti legali devono accodarsi in fila per un deposito di un atto o chiedere un certificato. Basterebbe attivare una casella di posta elettronica certificata. In questi giorni, poi, si stata dibattendo sull’utilizzo degli strumenti di videoconferenza per la conduzione dei processi penali più urgenti o con imputati detenuti. Sarà l’ennesima occasione mancata di trasformazione: non c’è fiducia per l’introduzione dei sistemi di videoconferenza a tutti i processi.

Certo, un percorso di trasformazione così radicale nella conduzione dei processi penali necessiterà di un investimento significativo del Governo sull’infrastruttura tecnologica del sistema giudiziario italiano; ma in tempo di emergenza, ci si può anche adeguare facendo appello ai buoni propositi di investimento di una classe forense disponibile a ricorrere alle piattaforme tecnologiche più comuni; perché di contro, il baratro per gli studio legali, è a pochi mesi. Ci vuole coraggio, allora: nient’altro. Coraggio nell’ammettere che i tempi sono cambiati e quei principi a fondamento del giusto processo oggi devono trovare una diversa declinazione tecnica, figlia dei tempi della connessione e della rete globale. (Ah, se solo il 5G fosse già operativo…!)
Nulla di scabroso, quindi, ad adottare un sistema di videoconferenza tra Avvocati, Pubblici Ministeri, Giudici e Imputati, anche detenuti, che garantisca pienamente l’esercizio del diritto di difesa per tutti e tutte le connesse garanzie: dalla proiezione real-time di un documento per le contestazioni al testimone al deposito dello stesso su di una piattaforma in cloud condivisa tra tutti i presenti. D’altro canto, l’attività professionale non è un mero esercizio narcisistico di calpestare le aule di Tribunale per il gusto di sfoggiare la propria Toga dando sfoggio della propria eloquenza oratoria; è ben altro, e ce lo insegna un grande Maestro, Piero Calamandrei: «L’avvocato non può essere un puro logico, né un ironico scettico, l’avvocato deve essere prima di tutto un cuore: un altruista, uno che sappia comprendere gli altri uomini e farli vivere in sé, assumere su di sé i loro dolori e sentire come sue le loro ambasce. L’avvocatura è una professione di comprensione, di dedizione e di carità. (…) tutti vedono nella toga il vigile simbolo di questa speranza (…) Per questo amiamo la nostra toga».

In nome di quel simbolo di speranza, allora, ritroviamo cuore e altruismo nella professione e lasciamo un segno in questa situazione emergenziale che significhi trasformazione per il futuro della professione.

Il futuro è la storia che ognuno di noi scrive oggi nel proprio presente.

Enrico Napoletano

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