GIUSTIZIALISTI O GARANTISTI? SI CHIUDE PER PRESCRIZIONE IL PROCESSO EX ILVA “AMBIENTE SVENDUTO BIS” E RIACCENDE IL DIBATTITO

Il Tribunale di Taranto ha dichiarato sentenza di “non doversi procedere” per intervenuta prescrizione dei reati contestati all’ex Commissario straordinario dell’Ilva, Enrico Bondi, e all’ex Direttore di stabilimento, Antonio Lupoli, entrambi imputati per getto pericoloso di cose e attività di gestione di rifiuti non autorizzata. 

Il Tribunale di Taranto ha dichiarato sentenza di “non doversi procedere” per intervenuta prescrizione dei reati contestati all’ex Commissario straordinario dell’Ilva, Enrico Bondi, e all’ex Direttore di stabilimento, Antonio Lupoli, entrambi imputati per getto pericoloso di cose e attività di gestione di rifiuti non autorizzata. 

Ci risiamo: neanche 48 ore dal tweet del Leader di Italia Viva – “sulla prescrizione non si può andare contro tutti. Noi siamo dalla parte del garantismo, non del giustizialismo (…) la riforma Bonafede/Salvini viola i principi costituzionali e fa male all’Amministrazione della Giustizia” – che il “paladino del giustizialismo” – il “Fatto Quotidiano” – è tornato alla carica, questa volta sulla pelle dei giudici tarantini: “ancora una volta la tagliola della prescrizione blocca la valutazione delle accuse formulate dagli inquirenti tarantini sulle emissioni velenose dello stabilimento siderurgico” (“Ex Ilva, l’ultima prescrizione: non luogo a procedere per l’ex commissario straordinario Enrico Bondi”, di F. Casula, 04/02/20).

Senza voler prendere parti, il vero tema che qui si pone non è tanto stabilire se si appartiene alla fazione dei “garantisti” o dei “giustizialisti” ma capire perché oggi l’istituto della prescrizione del reato è divenuto un nemico da dover perseguitare e contrastare ad ogni costo. Ciò che per decenni ha costituito un segno chiaro e indiscusso di civiltà giuridica (invidiato e copiato in tutto il mondo perché orientato secondo la Carta dei valori costituzionali), oggi, invece, lo si vuole trasformare in un segno di inciviltà. Segno, probabilmente, dei tempi che cambiano; ma cos’è cambiato veramente? Perché oggi un quotidiano nazionale come Il Fatto Quotidiano arriva al punto di affermare che “se si ha la speranza di prescrizione, soltanto un cretino patteggia la pena quando può ottenere ‘pena zero’ o addirittura “non c’è niente di scandaloso se un innocente finisce in carcere”? 

La riforma Bonafede – come ormai tutti sanno – ha bloccato il “timer” della prescrizione alla pronuncia della sentenza di assoluzione o di condanna al primo grado di giudizio: il processo penale è divenuto una corsa contro il tempo; il tempo necessario a prescrivere il reato entro la sentenza del primo grado di giudizio: tutti i processi penali devono, quindi, arrivare a sentenza prima che l’inesorabile decorso del tempo faccia dimenticare il reato. 

Ma perché i reati si prescrivono già prima della sentenza di primo grado? Non certo per colpa di un istituto come la prescrizione che nasce – lo ricordiamo ancora una volta – quale più alto segno di civiltà giuridica: perché – scrive l’illustre Maestro – “l’istituto della prescrizione deve la sua genesi alla presa d’atto che la repressione dei reati non può costituire un obiettivo prioritario a ogni costo”; più tempo passa “tra il reato commesso e il momento in cui interviene la condanna” e più “decresce la necessità pratica di punire dal duplice punto di vista della prevenzione generale e della prevenzione speciale. Ciò sia perché col passare degli anni sfuma l’allarme sociale, e viene meno il pericolo che altri siano per suggestione imitativa indotti a compiere delitti simili; sia perché col trascorrere del tempo il reo può essere diventato un’altra persona, può essersi spontaneamente ravveduto, per cui non avrebbe più senso e scopo applicargli una pena in chiave rieducativa.” (“La prescrizione sacrificata in nome dell’ossessione punitiva” di G. Fiandaca, “Il Foglio”, 15/12/2019).

Per effetto del decorrere del tempo rispetto al reato commesso, entrano quindi in gioco interessi ed esigenze concorrenti che devono essere bilanciati con l’interesse a punire: “preoccupazioni concorrenti che si collocano a monte del problema dell’efficiente funzionamento della macchina giudiziaria e dei tempi del processo, che occorrerebbe accorciare perché spesso in Italia troppo lunghi” (“La prescrizione sacrificata” di G. Fiandaca, cit.). 

I tempi del processo penale: questo è il punto. Il problema non è la prescrizione che era e resta un istituto che segna il più alto livello di civiltà d’un popolo; ma i tempi cui si articola un procedimento penale, fatto – per chi lo dimentica – di un’indagine preliminare, gestita dal Pubblico Ministero, e di un processo, gestito dal Giudice designato. In Italia, secondo i dati più di recente elaborati dal Ministero della Giustizia, il 62% dei processi penali non arriva in aula, ossia cade in prescrizione durante lo svolgimento delle indagini. Perché accade questo? Il dato è emblematico ma solleva una riflessione assai significativa che nasce dall’esperienza nei corridoi delle Procure e nelle aule di Tribunali: le indagini preliminari condotte dal Pubblico Ministero non sono perpetue! 

Il codice di procedura penale al riguardo è chiaro: “il pubblico ministero richiede il rinvio a giudizio entro sei mesi dalla data in cui il nome della persona alla quale è attribuito il reato è iscritto nel registro delle notizie di reato. Il termine è di un anno se si procede per taluno dei delitti indicati nell’art. 407, comma 2, lett. a)” (art. 405, comma 2, c.p.p.), e cioè per delitti gravi o di criminalità organizzata. Il termine (di sei mesi o di un anno) può essere prorogato una o più volte, prima di ciascuna scadenza, con ordinanza del Giudice, su richiesta del PM, per un tempo non superiore a sei (6) mesi (art. 405, comma 2-bis). In ogni caso, il codice pone alle indagini preliminari un termine massimo comprensivo delle proroghe che è, di regola,  diciotto (18) mesi e che giunge a due (2) anni nei casi previsti nell’art. 407, comma 2, e cioè a) se le indagini riguardano delitti gravi o criminalità organizzata; b) se le investigazioni sono particolarmente complesse per numero di reati collegati o di indagati o persone offese; c) se le indagini richiedono il compimento di atti all’estero; d) se si tratta di procedimenti collegati.

 

Dunque, ricapitolando, le indagini che il Pubblico Ministero può svolgere, non sono perpetue: possono durare, nei casi più complessi, fino al massimo due (2) anni da quando ha iscritto il presunto colpevole del reato nell’apposito registro degli indagati. 

Se così è, allora, perché assistiamo a indagini che durano oltre ogni termine di legge? addirittura – per esperienza – ci sono casi di indagini finanche di gran lungo superiori ai tempi necessari per il Giudice a celebrare il processo! Proviamo a svelare l’arcano e a fare lumi sul vero problema. Nonostante la chiarezza del dato normativo, nel corso del tempo, buona parte dei Pubblici Ministeri, specialmente nelle grosse inchieste, ha assunto la prassi di iscrivere la notizia di reato (sia essa una denuncia, una querela o un esposto) contro persona ignota: vuoi perché non sia conosciuta vuoi perché sia ancora da identificare. Ad ogni modo, dalla data di iscrizione della notizia di reato nell’apposito registro inizia a decorrere un termine di (sei) 6 mesi per le indagini contro ignoti che – attenzione –non ha un termine massimo di durata dettato dalle proroghe come per i procedimenti contro noi (art. 407 c.p.p.). Quindi, intanto la notizia di reato viene iscritta, si conducono le indagini senza un termine certo e ragionevole e soltanto se, dopo la seconda, terza o addirittura quarta richiesta di proroga del termine contro persona ignota, il GIP ritiene che in realtà dalle indagini risultano elementi per iscrivere la persona sottoposta ad indagine nell’apposito registro, allora, solo da quel momento si entra nel regime ordinario del termini di durata massima del procedimento.

Un escamotages noto agli addetti ai lavori per bypassare la scadenza processuale ed evitare che la sanzione dell’inutilizzabilità si abbatta come una “Spada di Damocle” sugli atti investigativi compiuti dopo lo spirare del termine. Ma non è tutto; perché anche dopo l’intervenuta iscrizione della persona nell’apposito registro, la Magistratura inquirente ha consolidato un’altra prassi dilatoria dei termini di prescrizione: uno dei più significativi che incide sul decorso della prescrizione consiste nel disporre, all’interno di un procedimento già iscritto nei confronti di un soggetto, l’iscrizione di una nuova notizia di reato relativa al medesimo fatto, anziché procedere al semplice aggiornamento della stessa, al solo fine di ottenere il computo di nuovi termini di decorrenza. Tale prassi – purtroppo costante – è stata censurata dalla giurisprudenza di legittimità, anche recente, che ha codificato il principio di diritto per cui “secondo la disciplina dell’art. 335 c.p.p., al pubblico ministero è fatto divieto di procedere ad una nuova iscrizione nel registro degli indagati della stessa notizia di reato, dovendo disporne il mero aggiornamento ai sensi del comma 2 quando risulti diversamente qualificata o circostanziata”; diversamente, “la duplicazione dell’iscrizione della medesima notitia criminis deve ritenersi illegittima e, pertanto, tamquam non esset ai fini della determinazione del termine di durata delle indagini disciplinato dall’art. 405 c.p.p. ss., con la conseguenza che dovranno ritenersi inutilizzabili gli atti che siano stati assunti “dopo la scadenza del termine” come decorrente dalla prima iscrizione (…)” (Cass. Pen., Sez. VI, 12 giugno 2017, n. 29151). 

Id est! il Pubblico Ministero può beneficiare della decorrenza di nuovi termini di indagine unicamente quando, a seguito di successive investigazioni, emerga un fatto storico-naturalistico diverso rispetto a quello già iscritto o così trasfigurato nei suoi elementi costitutivi da dover essere necessariamente riconosciuto come “altro”; diversamente, dovrà procedere ad un mero aggiornamento della notizia quando la cornice accusatoria sia rimasta immutata o quando il fatto risulti soltanto diversamente qualificato (quanto al titolo di reato) o circostanziato.

Condotte, queste poc’anzi descritte, che parrebbero quantomeno deontologicamente discutibili anche alla luce del fatto che, troppo spesso, assistiamo a maxi-inchieste durate decenni che poi improvvisamente si sgonfiano a processo; generando in tal modo nell’opinione pubblica un’aspettativa punitiva solo perché la maxi-inchiesta ha prodotto plurime contestazioni dopo anni di indagini. Ma era davvero necessario tutto quel tempo d’indagine? 

Il dogma della “caccia alle streghe” ha portato, oggi, a questo: trasformando la fase preliminare della Magistratura inquirente da indagine diretta a verificare la fondatezza della notizia di reato, raccogliendo anche elementi a favore della persona su cui si indaga, in una fase in cui si deve necessariamente trovare un colpevole da mandare a processo. 

Appare evidente, allora, che la finalità di speditezza dei processi e di certezza del diritto, che deve imperniare qualsiasi sistema giuridico, non possa essere raggiunta con il blocco dei termini prescrizionali con la sentenza di primo grado ma attraverso una riforma di sistema che possa garantire maggiore certezza al rispetto dei termini procedimentali previsti per le indagini preliminari. 

Forse, se di inciviltà giuridica si vuole parlare a livello giornalistico, si dovrebbe puntare il dito non nel riconoscimento dell’istituto della prescrizione del reato ma verso condotte dilatorie dei termini rispetto ai quali la prescrizione costituisce l’ultimo vero baluardo di tutela dei diritti dell’indagato di vedersi processato in tempi ragionevoli e certi.

La demagogia dei giustizialisti, talvolta, deve scontrarsi con i dati reali e portare a più miti valutazioni.

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