Il cambiamento della politica americana sul petrolio all’indomani dell’elezione di Biden

Joe Biden, 46esimo Presidente degli Stati Uniti d’America, ha iniziato il suo mandato con un programma estremamente ambizioso volto a contrastare il cambiamento climatico al fine di modificare il paradigma di base dell’economia americana nell’ottica della transizione energetica. Biden, un democratico centrista, aveva già avuto modo di affrontare tali tematiche a partire dal 2009 quando aveva ricoperto la carica di Vice Presidente sotto l’amministrazione Obama, che fortemente aveva implementato la normativa in tal senso, a partire dal cosiddetto modello “cap-and-trade”, varato il 25 marzo 2010, che poneva un limite all’inquinamento che una azienda poteva produrre. Le imprese, secondo tale normativa, potevano acquistare diritti per poter immettere in atmosfera gas considerati nocivi. Tale modello è anche stato mutuato nella normativa di settore europea, attraverso l’implementazione del cosiddetto “schema ETS”, vale a dire il sistema di scambio di quote di emissione, operante in 31 Paesi europei, introdotto nella legislazione europea grazie alla Direttiva 2003/87/CE e modificato a più riprese fino alla Direttiva 2018/410/CE.
Nel discorso seguente al giuramento avvenuto il 20 gennaio, Biden ha già formalizzato la sua posizione, affermando che la crisi climatica è la “minaccia esistenziale del nostro tempo”; alle parole ha fatto subito seguire azioni concrete, che hanno portato alla firma di 17 ordini esecutivi, tra cui il rientro degli Stati Uniti nell’accordo sul clima di Parigi, da cui, il 05 novembre 2019, l’ex Presidente Trump aveva annunciato il ritiro, dal momento che, citando le sue parole, poneva un “peso troppo iniquo sulle spalle dell’economia americana”. Biden, al contrario, in posizione diametralmente opposta, ha annunciato il varo di un programma da due trilioni di dollari volto a raggiungere la totale decarbonizzazione degli Stati Uniti entro il 2050, stesso traguardo perseguito dall’Europa con la Dichiarazione di intenti datata 28 novembre 2018, cui ha fatto seguito il Piano Next Generation EU.
Il cambio di paradigma, però, da Trump a Biden obbliga gli Stati Uniti ad un profondo ravvedimento nei confronti delle politiche adottate finora e dei modelli finanziari, economici ed imprenditoriali ad oggi intrapresi. Difficile appare infatti il possibile confronto tra il modello europeo e quello statunitense per quanto riguarda la transizione energetica e la futura decarbonizzazione: infatti, se da una parte abbiamo un’Unione di Stati che punta principalmente sul terziario, con una forte impronta pubblica nell’economia e che ha posto il problema climatico al centro dei dibattiti politici da decenni, dall’altra troviamo un Paese fortemente industrializzato, la prima potenza economica mondiale, che fonda tale predominio proprio sulla capacità di essere “too big to fail”, citando la teoria economica degli anni Novanta. Biden, difatti, che ricordiamo aver vinto non con una maggioranza schiacciante la sfida all’ex Presidente Trump, non ha portato al Congresso una politica green, paragonabile a quella ad esempio dell’Alleanza 90/I Verdi in Germania: i democratici, infatti, non sono ostili all’industria petrolifera americana che, infatti, rappresenta tuttora una percentuale elevata del prodotto statunitense. La produzione americana del petrolio, infatti, che aveva raggiunto un picco di 13 milioni di barili al giorno a fine 2019, oggi si aggira intorno a 11 mbg, dopo essere crollata a 10 mbg scarsi la primavera scorsa coincidente con la fase più acuta della pandemia. E le previsioni per il futuro non sono rosee. A ciò va aggiunto come secondo Fitch, tra le più importanti agenzie di valutazione del credito e rating, il maggior rischio di default negli Usa si concentra proprio nel settore dell’energia, con un tasso di insolvenza del 7-8% sulle obbligazioni high yield, per 15-18 miliardi di dollari, tenendo anche in considerazione il fatto che nell’arco dello scorso anno si sono avuti 46 casi di bancarotta tra le compagnie del settore.
Il giornalista Federico Rampini aveva coniato l’espressione “il fardello di chiamarsi America” per sottolineare la necessaria dipendenza mondiale nei confronti dell’economia statunitense. Se, infatti, è auspicabile un ripensamento del paradigma industriale a livello mondiale, volto a rallentare l’attuale sfrenata corsa, una crisi economico finanziaria paragonabile a quella del 2008 o del 2011 dovuta proprio alla forte flessione del mondo shale-oil sarebbe un evento da evitare assolutamente, a maggior ragione all’indomani della pandemia. Il rilancio green di un’economia quale quella statunitense non passa solamente da proclami e dichiarazioni di intenti, ma soprattutto da una visione a lungo termine attraverso un preciso schema economico-finanziario, che strutturi tale cambio di paradigma dalla piccola azienda alla multinazionale del petrolio. Varare un programma volto alla decarbonizzazione senza considerare le possibili ed anzi probabili ricadute economiche su settori di così grande importanza e l’effetto domino che si creerebbe, appare un rischio difficilmente sostenibile per gli Stati Uniti in primis e non auspicabile per il mondo stesso.

 

Enrico Napoletano

Founder

Studio legale Napoletano &Partner 

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